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GENETICA di Marco Tullio Dentale

É notte. La mia R4 vaga lentamente nella città addormentata.
Seguo con lo sguardo i cassonetti che incrocio. La gente butta di tutto. E parte di questo tutto ha un valore, a volte inimmaginabile. E c’è sempre qualcuno disposto a pagare per accaparrarsi una vecchia cornice o uno stereo fuori uso. O qualsiasi cosa la mente riesca ad immaginare.
Vendo quasi tutto ciò che trovo. E di questo io vivo. 
La mia intera vita è il risultato di pezzi di vita buttati dagli altri.
Il bello è, che riesco a guadagnare bene. Anche molto bene. Per me questo, più che un lavoro, è una vera e propria esigenza, una malattia, quasi una missione.
In me, scorre il sangue del trovarobe. Mio nonno lo faceva per passione. Tutto ciò che trovava e gli piaceva, lui lo portava a casa. Andava in giro con una grossa bicicletta nera. Anteguerre. Con le gomme piene. Quasi un fuoristrada. Inarrestabile! Attaccata alla canna, una vecchia borsa di pelle con dentro di tutto. Rondelle, dadi, bulloni, viti, chiodi, attrezzi, attache, spille da balia, pezzi di camera d’aria, colla, fil di ferro, spago. Con quel materiale, in pochi minuti, faceva delle riparazioni che al confronto le sculture di Calder sarebbero impallidite. Il peso specifico di quella borsa era superiore a quello del mercurio. La densità... totale! Ogni millimetro cubo era invaso da qualcosa. 
Quella borsa era diventata un monolite, da venerare come quello di 2001 Odissea nello spazio. Un vero oggetto di culto. Mio nonno accatastava tutto quello che trovava, in una stanza della nostra casa. E a quegli oggetti, mia nonna aggiungeva ritagli ed avanzi delle stoffe che usava per il suo lavoro di sarta. “Non si sa mai” diceva “un giorno potrebbero essere utili per un ritocco, un rammendo”. Roba che con tutti quegli stracci Christo avrebbe potuto ricoprire l’intera basilica di S. Pietro. Molto laicamente, s’intende. 
Ricordo perfettamente quella stanza. Dalla porta, ormai inchiudibile, iniziava una specie di tortuoso sentiero che arrivava alla finestra sulla parete opposta e ai lati del sentiero, due colline s’innalzavano fino al soffitto. Montagne per un bambino come me. Quando percorrevo quel sentiero, mi sentivo come Tex nella gola di un canyon, aspettando l’inevitabile discesa di urlanti indiani. Penso che nessuno abbia mai saputo cosa ci fosse dentro quelle colline. Nella stanza attigua viveva mia zia. Il suo era un totale disordine ordinato. Tutto era perfettamente impacchettato, impilato, etichettato, datato, allineato, schedato. Era un enorme cubo di Rubrik! Per prendere una cosa dovevi, una volta studiata la situazione, trovare la sequenza degli spostamenti incrociati che ti avrebbero portato all’obiettivo finale. Eureka!
Mia madre riformattò mio padre quando lasciammo la casa dei nonni. Ma nulla potè con me. Il richiamo genetico del trovarobe era così forte, da farne la mia attività, il mio lavoro. La mia vita. E così la notte vago. Come un lupo solitario alla ricerca della propria preda. Una vera e propria caccia. Un barlume, uno scintillio, un minimo elemento che attira la mia attenzione, la mia curiosità, e mi fermo, frugo, verifico, carico, riparto.
Ed ora quel cassonetto semiaperto in viale Togliatti. Intuito, sensazioni. Qualcosa. É come una puntata alla roulette. Perchè proprio quella?! Giro la macchina. Mi fermo. L’adrenalina sale. Scendo. Alzo il coperchio e guardo dentro. Sopra un mucchio di spazzatura un piccolo bambino di pochi giorni muove in silenzio gambine e braccine. E’ di colore, seminudo, maschio, con tantissimi capelli. Nerissimi. La luce del lampione alle mie spalle gli fa socchiudere gli occhi. Lo prendo in braccio. Lui riapre i suoi occhioni neri e mi guarda, salutandomi con un gridolino. Mi sorride. Infagottandolo nella mia giacca, mi dirigo verso casa. É il quinto che adotto. I suoi fratelli di cassonetto, domattina, al loro risveglio, lo accoglieranno con tutto l’entusiasmo e amore per la vita che insieme abbiamo costruito. Lo chiamerò Palmiro.